Il settore della moda in Ticino, oggi, non può essere paragonato al settore tessile-industriale che per tutto il ‘900 è stato un fiore all’occhiello dell’economia ticinese, di cui tradizione, produzione industriale e legame con il territorio erano aspetti peculiari. Quel settore, nel presente e in quelle forme, non esiste più. Gli unici aspetti che permangono nel tempo, e che purtroppo ne rappresentano una continuità storica, sono, condizioni di lavoro precarie e imperdonabili a cui bisogna ora dare una prima e immediata risposta politica con l’introduzione di un dignitoso salario minimo legale. A farne le spese, soprattutto, sono le donne.
In Ticino, al momento, sono presenti soprattutto holding di grandi marchi internazionali della moda e del lusso che qui hanno trasferito solo centri di fatturazione e di logistica. Poco o nulla rimane di produttivo, tranne qualche eccezione locale schiacciata dallo strapotere di queste aziende globali.
Perché questi grandi marchi sono arrivati in Ticino? Sicuramente per il trattamento di favore che hanno ricevuto: condizioni fiscali più che favorevoli attraverso un regime di tassazione agevolata nei primi dieci anni dall’insediamento, la possibilità di depositare le proprie merci nei punti franchi “tax free”, nonché numerosi sgravi e concessioni ai propri dirigenti strapagati.
Non solo: approfittano ogni giorno della possibilità di utilizzare manodopera frontaliera a basso costo, sfruttando e fomentando così il dumping salariale e sociale a cui sono soggetti tutti i lavoratori. Ad affermarlo è anche Franco Cavadini, ex-presidente dell’Associazione Fabbricanti Ramo Abbigliamento: “Il 90% delle industrie dell’abbigliamento locale ha sede nel Mendrisiotto per la possibilità di accedere a manodopera estera, quindi al frontaliero”.
Il Ministro Vitta afferma con orgoglio che le “condizioni quadro” del Cantone (dicasi regali fiscali) hanno portato qualche milione nelle casse… Ci mancherebbe! Avremmo dovuto permettere che queste aziende sfruttassero territorio e manodopera per i loro profitti totalmente gratis?
Per altro, non dimentichiamoci che il saldo è comunque tristemente negativo: capannoni immensi che deturpano i nostri paesaggi, distruzione del territorio, pressione sui salari e dipendenza delle politiche comunali dagli indotti di queste aziende.
Le grandi holding, del lusso o no, sono caratterizzate da una forte mobilità territoriale: delocalizzano senza problemi sulla base dei mutevoli contesti legislativi e fiscali internazionali. Non ci si deve dunque stupire se ora assistiamo alle prime fughe di questi marchi dal Ticino: come sono arrivate , se ne andranno.
Per queste ragioni è sempre più evidente come il settore della moda non sia più strategico per il nostro Cantone. Non possiamo impostare la nostra politica economica pensando esclusivamente alla competitività fiscale. Concedendo sgravi ed agevolazioni fiscali attireremo sul territorio solo aziende “spregiudicate” e “mobili”, interessate a sfruttare al massimo quello che il Ticino può offrire, per poi migrare altrove.
Si rende assolutamente necessario un cambio di paradigma: bisogna iniziare a frenare, quando non vietare, le delocalizzazioni di chi ha usufruito di incentivi fiscali, almeno fino a quando non avranno ridato indietro le somme concesse, come proposto dal Partito Comunista durante questa legislatura in Parlamento.
Bisogna poi progettare una nuova politica industriale cantonale: promuovere gli investimenti pubblici in settori realmente strategici come quello dell’”economia circolare”, supportare attivamente l’innovazione di quelle piccole imprese locali che garantiscono elevati standard salariali e ambientali, e connettere queste aziende tra loro mettendole in rete con i centri di ricerca pubblica.